Jakatta - American dream (Afterlife remix)
The horrors - Scarlet fields
Portugal. The man - The sun
Fleet foxes - Mykonos
MGMT - Kids
Tears for fears - Pale shelter
Little boots - Remedy (Rusko's big trainer remix)
Duffy - Stepping stone (Caveman remix)
Wilco - Wilco (The song)
The rolling stones - Brown sugar
Aquarian age - 10.000 words in a cardboard box
http://www.youtube.com/watch?v=JfY-_HhmW68
The flaming lips - The yeah yeah yeah song
Depeche mode - Useless (The Kruder + Dorfmeister sessions)
Sibylle - Tonight
The staple singers - I'll take you there
Marianne Faithfull - Sex with the strangers (Sly and Robby)
Jon Hassel Brian Eno - Chemistry
Wild beasts - All the king's man
Portishead - Numb
Portishead - Glorybox
David Bowie - Life on mars (da Storytellers)
David Bowie Life On Mars Story Tellers
Traffic - Forty thousand headmen
sabato 18 luglio 2009
venerdì 17 luglio 2009
Anti Shelter - Luglio - Il singolo di Tommaso Toma
The Flaming Lips - The Yeah Yeah Yeah Song - 2006
(da wikipedia.it)
The Flaming Lips sono un gruppo alternative rock psichedelico formato ad Oklahoma City nel 1983 e ruotanti attorno alla carismatica figura del leader Wayne Coyne che li fondò dopo aver rubato degli strumenti musicali in una chiesa[1].
Il gruppo è noto per i suoi arrangiamenti perlopiù psichedelici ed i testi bizzarri oltre agli strani titoli di album e canzoni (ad esempio Pilot Can at the Queer of God, Free Radicals (A Hallucination of the Christmas Skeleton Pleading with a Suicide Bomber) e Yeah, I Know It's a Drag... But Wastin' Pigs Is Still Radical). Le loro esibizioni dal vivo sono particolari: vi si possono vedere infatti persone vestite con costumi da animale, palloncini, marionette, proiezioni video, una complessa configurazione delle luci del palco, mani giganti, un'alta quantità di confetti ed una bolla di plastica a grandezza d'uomo con il quale Wayne Coyne attraversa il pubblico[1]. Nel 2002 la rivista Q Magazine li ha inseriti nella classifica dei "50 gruppi da vedere prima di morire" ("50 Bands to See Before You Die")[2].
Il gruppo registrò molti album ed EP per una etichetta indipendente negli anni '80 e nei primi anni '90. Dopo aver firmato un contratto con la Warner Bros. Records, il pezzo She Don't Use Jelly diventò un hit. Nonostante questo sia stato il loro unico successo negli Stati Uniti, il gruppo ha sempre avuto critiche positive oltre a, anche se in maniera minore, un buon successo commerciale, come nel caso dell'album The Soft Bulletin del 1999, che venne votato "Album dell'anno" dal New Musical Express[3], e con Yoshimi Battles the Pink Robots del 2002. Il gruppo ha avuto maggior successo commerciale nel Regno Unito ed in Europa rispetto agli Stati Uniti. Nel febbraio 2007 sono stati nominati per un BRIT Award nella categoria "Best International Act"[4]. Fino al 2007 hanno ottenuto tre Grammy Award, inclusi due per "Best Rock Instrumental Performance"[5].
(da wikipedia.it)
The Flaming Lips sono un gruppo alternative rock psichedelico formato ad Oklahoma City nel 1983 e ruotanti attorno alla carismatica figura del leader Wayne Coyne che li fondò dopo aver rubato degli strumenti musicali in una chiesa[1].
Il gruppo è noto per i suoi arrangiamenti perlopiù psichedelici ed i testi bizzarri oltre agli strani titoli di album e canzoni (ad esempio Pilot Can at the Queer of God, Free Radicals (A Hallucination of the Christmas Skeleton Pleading with a Suicide Bomber) e Yeah, I Know It's a Drag... But Wastin' Pigs Is Still Radical). Le loro esibizioni dal vivo sono particolari: vi si possono vedere infatti persone vestite con costumi da animale, palloncini, marionette, proiezioni video, una complessa configurazione delle luci del palco, mani giganti, un'alta quantità di confetti ed una bolla di plastica a grandezza d'uomo con il quale Wayne Coyne attraversa il pubblico[1]. Nel 2002 la rivista Q Magazine li ha inseriti nella classifica dei "50 gruppi da vedere prima di morire" ("50 Bands to See Before You Die")[2].
Il gruppo registrò molti album ed EP per una etichetta indipendente negli anni '80 e nei primi anni '90. Dopo aver firmato un contratto con la Warner Bros. Records, il pezzo She Don't Use Jelly diventò un hit. Nonostante questo sia stato il loro unico successo negli Stati Uniti, il gruppo ha sempre avuto critiche positive oltre a, anche se in maniera minore, un buon successo commerciale, come nel caso dell'album The Soft Bulletin del 1999, che venne votato "Album dell'anno" dal New Musical Express[3], e con Yoshimi Battles the Pink Robots del 2002. Il gruppo ha avuto maggior successo commerciale nel Regno Unito ed in Europa rispetto agli Stati Uniti. Nel febbraio 2007 sono stati nominati per un BRIT Award nella categoria "Best International Act"[4]. Fino al 2007 hanno ottenuto tre Grammy Award, inclusi due per "Best Rock Instrumental Performance"[5].
giovedì 16 luglio 2009
Nuova puntata la notte fra il 17 e il 18 agosto
Vi comunichiamo che la prossima puntata di off topic radio sarà in onda sulle frequenze di Radio Popolare - Popolare Network la notte fra il 17 e il 18 luglio a partire dalle 0.50 fino alle 2.45 circa.
Oltre che in FM e sul satellite puoi ascoltarci qui:
http://www.radiopopolare.it/poplive/diretta/
Oltre che in FM e sul satellite puoi ascoltarci qui:
http://www.radiopopolare.it/poplive/diretta/
Omaggio ai Joy Division
Steel Harmony eseguono una cover di Transmission, il 5 luglio 2009, alla Jeremy Deller’s Procession for the Manchester International Festival. Da vedere e sentire!
martedì 14 luglio 2009
Anti Shelter - Luglio - L'album di Tommaso Toma
Portishead - Dummy -1994
(da ondarock.it)
Dal laboratorio inglese di Bristol - fucina di uno dei movimenti più interessanti degli anni Novanta, il trip-hop - sono uscite molte accattivanti alchimie (da "Maxinquaye" di Tricky al trittico "Blue Lines"-"Protection"-"Mezzanine" dei Massive Attack). Solo una, però, è riuscita a fissare in modo perfetto e definitivo l'"essenza" del genere. Trattasi, per l'appunto, di "Dummy", disco d'esordio dei Portishead (dal nome del paese in cui Geoff Barrow, mente della band, trascorse la giovinezza). Griffato in copertina dalla tipica "P" formato gigante che caratterizzerà tutte le produzioni della band (ovvero un altro buon disco, "Portishead", e l'ottimo "Live in Roseland, New York"), "Dummy" è una sorta di "classico moderno". Un disco senza tempo, forse proprio perché sempre in bilico tra passato e futuro. Come un film in bianco e nero, girato con le tecniche più avanzate di fine Millennio. Mai forse come in questo caso, l'uso del termine "cinematico" si adatta a definire un sound che fa dell'ideale connubio suoni-immagini la sua chiave di volta. Può fare da sottofondo a un viaggio notturno o a un incontro d'amore. Può animare le sequenze di una spy-story o di un thriller di Lynch (do you remember "Twin Peaks"?). Ma può essere anche la colonna sonora di un film di fantascienza post-atomico, per lo spirito lugubre e decadente che lo pervade. D'altra parte, gli stessi Portishead hanno voluto mettersi alla prova dietro la macchina da presa, realizzando il cortometraggio "To Kill A Dead Man". L'idea-cardine di Barrow e compagni è la rielaborazione di vecchi motivi di film noir e di spionaggio, mescolati a spunti jazzy-lounge e ritmi hip-hop rallentati, e immersi in atmosfere desolatamente romantiche. Per il resto, l'architrave sonora di "Dummy" è quella tipica di tanto trip-hop a venire: massiccio utilizzo di sample e scratch (i suoni ottenuti strofinando la puntina sul vinile dei vecchi 33 giri o dischi mix), giri di chitarra presi in prestito dagli spaghetti-western anni 60, ampie sezioni di archi, bassi cupi, sintetizzatori "moog" e un organo hammond ad aggiungere un ulteriore tocco "vintage". Ma su questo impasto di suoni svetta il canto dolente e spettrale di Beth Gibbons, ribattezzata audacemente "la Billie Holiday venuta dallo spazio" (e autrice nel 2002 di quello splendido debutto solista dal nome di "Out Of Season"). La sua voce è capace di improvvise escursioni di registro: può essere tesa, metallica, straziante; ma anche calda e sensuale, come nel lento "Glory Box", dolente dissertazione sulle tribolazioni delle donne, o nell'iniziale "Mysterons", che parte con un piglio da bolero e finisce avvolta tra le spire di sonorità sempre più suadenti, tra strimpelli di chitarre e soffici tappeti di tastiere. Il climax emotivo dell'intera raccolta è però il singolo "Sour Times", sorta di "atto di contrizione" dall'incedere mesto e dalla melodia sontuosa, con una Gibbons disperatissima che grida al vento "'Cause nobody loves me/ It's true/ Not like you do...", sulle note di un'orchestra spettrale. Un pezzo memorabile, che sarà finanche migliorato nella straziante interpretazione dal vivo di "Live in Roseland, New York". L'impronta jazz, portata in dote dall'eclettico Adrian Utley, appare più evidente in tracce come "Strangers" e "Pedestal"; la prima, in particolare, svela anche l'opera certosina compiuta in studio dai Portishead, con il suo susseguirsi di raffinate digressioni sonore - dal soul alla bossa nova - e variazioni di ritmo (con tanto di "stop&go" sincronizzati col canto di Gibbons). "Roads" abbina i gemiti delle chitarre a un'orchestrazione retrò, sospinta da archi solenni: l'effetto è di grande suggestione, come a voler introdurre il colpo di scena in un ideale film. Il lato più tenero della band si esalta nella malinconica "It Could Be Sweet", in cui il soprano di Gibbons riesce a gonfiare d'emozione quasi ogni sillaba della strofa "Try a little harder...". Propulso da ritmi ossessivi - anche mediante l'uso di un tamburo africano - "Numb" è un altro numero d'alta scuola della vocalist, che riesce a fluttuare sapientemente tra le note con vocalizzi a` la Sade. E' invece una raffinata chanteuse da cabaret quella che si cala nel lied incalzante di "Wandering Star", avvolta in una coltre di sibili elettronici e di scratch, con il solito basso dub a reggere il gioco. "Pedestal" e "Biscuit" danno voce ai fantasmi di quell'ansia latente che è un altro marchio di fabbrica della ditta Portishead, conducendo l'ascoltatore lungo un cunicolo di oscuri meandri sonori, costruiti su una struttura ipnotica e ossessiva. "Biscuit", in particolare, accentua la componente ritmica del sound, scatenando una tempesta di beat sincopati e pulsazioni hip-hop, con le folate gelide delle tastiere sullo sfondo. Forse solo "It's A Fire", con la voce di Gibbons che miagola un po' troppo su un accompagnamento d'organo, abbassa per un attimo la qualità di un disco praticamente perfetto. "Dummy" è sì il manifesto definitivo della rivoluzione trip-hop – paragonabile per importanza a quella parallela della techno - ma anche l'opera che più di ogni altra travalica i confini di quel genere, per approdare nei territori di una musica tanto retrò (nell'animo) quanto moderna (nell'approccio). L'opera dei Portishead affonda le radici nella mestizia del blues e nelle confessioni a cuore aperto del soul; assorbe l'angoscia della dark-wave, la rabbia dell'hip-hop e l'ossessività della techno. E riesce a rivestirle in ballate di rarefatta eleganza, grazie anche a un gusto orchestrale mai sopra le righe. Chi vede lungo i solchi di "Dummy" nient'altro che semplici "canzoni", magari arrangiate in modo ammiccante e "alla moda", fa un torto, prima ancora che ai Portishead, ai loro veri padri putativi: Ennio Morricone, John Barry e Angelo Badalamenti.
A proposito di questo album Tommaso scrive:
Un disco notturno, perche´ anche la notte arriva in un isola deserta.E anche cementizio, ogni solco del disco ci riporta tra le vie di una metropoli dai neon accesi, fumosa come mi piacerebbe ancora percepire nelle stanze dei locali aperti fino a tarda notte. E gli spazi stretti mi mancano alla fine in questa spiaggia senza limiti.Un disco che tramette dipendenza dalle sigarette... quelle forse mi mancheranno dopo aver ascoltato questo capolavoro dello struggimento al limite del clautrofobico. Il pacco da 10 oramai sta finendo, era l´unico disponibile.
Anti Shelter - Luglio - L'album di Aldo Cravedi
Brian Eno & Jon Hassel - Possibile Music: Fourth World vol.1 - 1980
(da ondarock.it)
Nel 1980 un’altra forte personalità entra in gioco, e a modo suo aiuta a rimettere a fuoco il progetto. Si tratta di Brian Eno, con il quale Hassell dà vita al suo secondo capolavoro, Possibile Music: Fourth World vol.1, nel quale sviluppa ulteriormente la sua musica e la sua filosofia. A questo punto uno dei suoi obbiettivi espliciti è fare musica "che nessuno è in grado di concepire", musica che integri verticalmente così tante influenze da non poter essere associata esplicitamente a nessun paese o genere musicale. È la musica del Quarto Mondo, un’area immaginaria dove il Nord e il Sud collassano, dove razionalità e fisicità, freddezza e calore trovano punti di saldatura, oppure zone di attrito che stridono cariche di significato. Il Quarto Mondo di Hassell è un concetto politico, filosofico, musicale, senza soluzione di continuità. Nel disco, Eno fornisce sghembi brusii elettronici, e soprattutto controlla i reverse delay a lungo intervallo, che perdono l’apparenza di comuni "echi" perché ritornano rovesciati dopo vari secondi, e vanno in sostanza a intrecciarsi alla tessitura della tromba: Hassell sa riconoscere queste forme e sa rispondere loro in tempo reale, sulla lezione di Pran Nath. Fourth World è il disco "imprescindibile" secondo vari testate giornalistiche, seminale perché dà il via alla miccia del fenomeno world , della new age poi. Eno stesso sarà grande ambasciatore del verbo, arrogandosene forse un po’ troppo la paternità, trasmettendolo per esempio a David Byrne in "My Life In The Bush Of Ghosts" (ma già Hassell era transitato tra le fila dei Talking Heads). Da lì anche Peter Gabriel attinge a piene mani, come tanti altri più o meno ispirati.
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